“Cosa vorresti fare da grande ?”
“Voglio fare l’ingegnere, quello che progetta le automobili”.
Avevo 5 anni, era il primo di ottobre del 1962, primo giorno di scuola elementare. Il preside in visita alla classe dei remigini mi fece la fatidica domanda ed io risposi senza la minima esitazione. Avevo già deciso il mio futuro.
I primi segnali pericolosi della insana passione per tutto ciò che avesse un motore a scoppio si erano manifestati intorno ai due anni.
Camminavo appena e un pomeriggio per strada mi allontanai da mia madre per avvicinarmi ad una motocicletta parcheggiata sul marciapiede. La toccai e lei mi cadde addosso, come una innamorata che cade ai piedi del suo principe azzurro. Io non mi feci nulla, la moto non so, mia madre a momenti ci lasciava le penne per lo spavento.
Avevo pochi anni ed andavo spesso a giocare in un piccolo parco, attraversato dai binari di una linea ferroviaria locale. Attendevo con trepidazione il passaggio della mitica “littorina”, uno dei pochi treni locali che passavano su quella linea ferroviaria che sarebbe stata dismessa pochi anni dopo. Quel miraggio tecnologico di colore marrone, che sfrecciava a pochi metri da me, era una visione estasiante, come fosse la cometa per i re magi o l’aurora boreale per i pochi abitanti dell’antartide.
A nove anni, comprai il mio primo numero della rivista “Motociclismo”, affascinato dalla prima vittoria nel mondiale della classe 500 di Giacomo Agostini. Quel caschetto tricolore, gli occhialoni, la tuta rigorosamente nera, erano per me come l’ armatura indossata da un eroico cavaliere medioevale, a bordo di quella moto dal nome nobile che solo a dirlo incuteva rispetto, MV Agusta. All’epoca non c’era la televisione che trasmetteva le gare, almeno non ne ho memoria. Vedevo le foto sui giornali e sognavo di diventare un giorno anch’io un pilota, un funambolo della moto. Ma consapevole dei miei limiti e del destino non proprio favorevole, mi ero preparato per tempo un piano di riserva. Qualora non avessi avuto le doti per diventare un pilota vincente, sarei diventato un progettista di moto, quindi un ingegnere. La convinzione sul mio destino era sempre più granitica. Rispetto alle prime affermazioni riguardo la mia scelta professionale, in quegli anni si fece forte, anzi fortissimo il convincimento di diventare ingenere meccanico. La specializzazione era importante. Avevo scoperto che gli ingegneri progettavano anche le case o i ponti, le ferrovie e gli impianti elettrici. Ma queste cose mi apparivano come banalità di cui non valesse neanche la pena di parlare. Per me esistevano solo i motori a scoppio, le moto e le auto. Ma non trascuravo neanche i camion ed i trattori.
Il passaggio sotto casa del camion della nettezza urbana scatenava un entusiamo simile alla littorina dei miei giochi all’aperto. Quando sentivo da lontano il rumore inconfondibile del camion che si avvicinava , correvo alla finestra e guardavo estasiato quel prodigio della tecnologia, grande, potente ed anche puzzolente. Osservavo con invidia gli spazzini che, in equilibrio precario sulle predelline posteriori, avevano il privilegio di lavorare e di utilizare quel fantastico mezzo. Quanche volta mi scappò anche di dire che da grande avrei voluto fare lo spazzino, per poter godere la vicinanza di una tale meraviglia della tecnica. Ma tale scelta cozzava con la decisione di diventare ingegnere meccanico, quindi fu presto abbandonata.
Tra i dieci ed i tredici anni andavo solo in bicicletta. Non che fossi un appassionato di pedalate, ma perchè era la cosa più simile ad una motocicletta che potessi condurre.
Il gioco del calcio non mi ha mai attratto. Non ho mai tifato per una squadra di calcio. Quando i miei amici mi chiedevano “di che squadra sei ?” io rispondevo tranquillo “di nessuna, non mi piace il calcio, seguo solo le corse di auto e moto”.
Verso i dodici anni la passione più grande della mia vita si palesò in modo definitivo. Il motocross, regina delle discipline motoristiche con le sue ancelle, ossia le moto da cross.
Conoscevo tutti i modelli di moto da cross in commercio in tutto il mondo e di ciascun modello tutte le caratteristiche tecniche. Passavo pomeriggi interi a fantasticare favolose avventure in sella ad una moto da cross, guidata in modo magistrale da me, capace di ogni virtuosismo, ogni acrobazia.
Quando arrivò il giorno in cui divenni proprietario di un motorino 50 da cross, non avevo mai guidato nulla a motore. Ero stato solo in bicicletta. Neanche un Ciao avevo mai guidato.
Ma appena fuori del concessionario, feci benzina, misi in moto e partii. Era uno dei pochissimo modelli in commercio a 5 marce. Ricordo ancora il suono metallico, cristallino, del motore a due tempi, l’odore della miscela bruciata, l’emozione della prima accelerata, del primo giro in moto della mia vita. Tornai a casa dopo tre ore. Avevo le dita della mano sinistra (quella della frizione) in preda ai crampi, il polso della mano destra indolenzito a causa dei nuovi movimenti a cui l’avevo costretto (ruotare la manopola del gas). Puzzavo di miscela, le scarpe erano troppo leggere e si erano rovinate a furia di cambiate. Ma ero felice, finalmente potevo guidare una moto. In poco tempo divenni veramente il funambolo che avevo sognato di essere, guidavo con maestria e capacità, il cross non aveva segreti. Furono tempi felici, a stretto contatto con quello che amavo e non mi chiesi più cosa volevo diventare da grande, almeno fino alla maturità. Non evavo tempo di pensare, dovevo andare in moto.
I miei genitori volevano che studiassi legge, speravano in un posto in banca, che mio padre mi avrebbe lasciato una volta andato in pensione. Dopo la maturità, per qualche settimana mi convinsi ad iscrivermi alla facoltà di legge. Avevo preso anche i bollettini postali, tutto stava andando secondo la volontà dei miei genitori. Poi tornai ad avere il controllo di me stesso. Mi iscrissi alla facoltà di ingeneria. A mia madre prese un colpo. A mio padre pure. Dicevano che era troppo difficile, che avrei dovuto studiare troppo, che non ero proprio stato uno studente esemplare al liceo e che forse era meglio una strada più semplice.
Ma io ero rimasto al mio proposito di bambino, quel fatidico 1 ottobre 1962, quando dissi che da grande sarei diventato ingegnere.
E ingegnere lo divenni realmente. Il 15 luglio del 1983 fui proclamato ingegnere meccanico, dal professore Carmelo Caputo, un luminare, uno dei più grandi professori di macchine che l’Italia abbia avuto. I suoi libri troneggiano ancora nella mia libreria.
I giorni immediatamente successivi alla laurea furono ovviamente euforici. Finalmente avevo finito la fase studentesca, ora dovevo trovare un lavoro.
A differenza dei miei colleghi neo laureati, cercavo un lavoro da ingegnere meccanico, possibilmente nel campo dei motori a combustione interna. Non volevo occuparmi di informatica, di strutture metalliche, ponti o elettronica. Io volevo lavorare con i motori. I mesi di settembre, ottobre e novembre passarono veloci, tra colloqui vari ma senza nessuna possibiltà concreta di essere assunto.
A dicembre feci il colloquio in una piccola società, che si occupava della progettazione e produzione di banchi prova motori. Il colloquio ebbe esito positivo e iniziai a lavorare. Ero diventato progettista di banchi prova motori. Il primo giorno di lavoro andai al centro tecnico della motorizzazione militare, dieci sale prova, piene di motori di carri armati, camion e mezzi militari di tutti i tipi.
Stavo realizzando il mio sogno. Stavo per intraprendere la professione di ingegnere meccanico. Stavo sempre in mezzo ai motori, progettavo gli impianti e i banchi che servivano a provarli, quindi li vedevo funzionare, sfumicare, perdere olio, acqua, gasolio. Ero nel mio mondo. Le esperienze di lavoro si moltiplicarono, stavo sempre fuori di casa, in cantiere o presso clienti. Giravo l’Italia senza mai stancarmi.
La storia professionale andò avanti, la carriera in qualche modo si indirizzò sempre nello stesso ambito. Poi ad un certo punto il cambiamento epocale. Inizia a lavorare per una ditta di Cento (provincia di Ferrara), sempre produttrice di banchi prova motori, ma questa volta ben inserita nel mondo motociclistico.
Iniziai a frequentare i reparti corse di Aprilia, Derbi, Ducati, KTM e via via tutti i principali costruttori di moto del mondo. Ero sempre più convinto della mia scelta professionale, della mia scelta di vita. Essere ingegnere meccanico, lavorare come ingegnere meccanico. Completamente preso dal lavoro che stavo facendo, dedicai tutti i giorni, tutti i week end, molte ore della notte, al lavoro, allo studio, all’apprendimento di tutti i segreti del mestiere, della tecnica, del funzionamento dei motori. Studiavo e ristudiavo i testi tecnici più importanti, imparavo a memoria tutte le formule, i metodi di calcolo, le nozioni che mi potessero consentire di essere il migliore nel fare il mio lavoro. Sempre e comunque ingegnere meccanico. Nel frattempo mi sono sposato, ho avuto due figli, tante soddisfazioni dalla famiglia, ma nulla ha scalfito la mia fede primordiale.
Dal 1 ottobre 1962 ad oggi, 5 agosto 2018. 56 anni dopo, 35 anni di vita professionale, da crociato dell’ingegneria, templare della meccanica, cataro della tecnologia. 35 anni dedicati a fare calcoli, disegni, progetti, a costruire e vendere banchi prova, condividendo con clienti, colleghi e collaboratori la passione per i motori, l’amore per la tecnica.
Nulla mi ha mai fatto cambiare idea. Lavoratore stakanovista, oltre 12 ore al giorno, tutti i giorni. Viaggiatore instancabile. 50 viaggi in India, 30 viaggi in Cina, 5 viaggi in Giappone, tre viaggi in Vietnam, Brasile, USA, centinaia di trasferte in Francia, Germania, Spagna, Inghilterra, Turchia, Algeria, Egitto ed Iran. Sempre sempre pronto a fare le valigie, mai stanco, sempre entusiasta.
Ogni tanto mi chiedo se ho fatto la scelta giusta.
Non cerco una risposta e non sono capace di valutare se la mia vita sarebbe stata migliore se avessi fatto qualcosa di diverso.
Ho dato retta al mio cuore e quello che ho fatto lo ho sempre fatto con la stessa passione. Questo per me è sufficiente per non avere rimpianti. Quel bambino è diventato ingegnere. Un sogno si è avverato. Quindi se ne potrebbero avverare anche altri. Per questo continuo a sognare.
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